PASSAGGIO di Maria Luisa Paolillo INQUIETUDINE di Maria Luisa Paolillo
“Mollare tutto e andare via vuol dire credere che esista un altrove” –Emilio Tadini
PASSAGGIO – INQUIETUDINE
Esiste in ciascun essere umano un bisogno di senso che l’uomo cerca in tutti i modi di soddisfare attivandosi, con i mezzi a propria disposizione, in una ricerca, o in una negazione, che può durare anche tutta una vita. “Quella del profugo mi sembra una metafora che rappresenta bene la nostra condizione attuale- la condizione della nostra cultura, alta o bassa che sia. … Lasciare la casa delle certezze, delle sicurezze …”1. Siamo profughi. In fuga o alla ricerca di noi stessi anche quando spinti dai bisogni primari. In cerca di un luogo da chiamare casa, famiglia, anche nelle più alte speculazioni intellettuali e spirituali. Profughi pellegrini con le nostre valige, i nostri fagotti, i nostri pennelli e le nostre penne, ed anche, sì, con le nostre macchine fotografiche. Con il nostro bisogno. E quando il bisogno diventa un graffio e poi un grido al quale dovere a tutti i costi dare spazio e forma, allora nasce l’Arte, alta o bassa che sia. Dalle pitture rupestri a Caravaggio, da Giotto a Toulouse-Lautrec, da Dante a Pasolini, da Baudelaire a Cappello, da Paganini a Battiato, senza quel grido, senza quell’ “ansioso bisogno di un senso” 2 le loro opere sarebbero involucri del niente destinate al mordi-e-getta proprio della gran parte delle decine di migliaia di immagini da cui siamo bombardati ogni giorno. “Se tutto è da vedere e basta, come a volte sembra pretendere la nostra “civiltà dell’immagine” allora al posto del senso- di quella ansiosa ricerca di senso in cui il senso prende corpo- resta, e si insedia, il vuoto”2. L’arte quindi può essere sì, per chi ne è spettatore e testimone coinvolto, il nostro bisogno di consolazione, come un abbraccio, proprio per quel bisogno di senso che l’ha generata e nel quale siamo portati a riconoscerci. Ma per l’artista è l’espressione di quel grido che ci portiamo dentro, di quel bisogno di senso che non accetta l’effimero e non accetta il finito. “Che il dipinto, prima di tutto, sia nuda apparenza, superficie. E, poi, che su quella nuda apparenza si diano da fare lo sguardo ed il pensiero” 2. Siamo profughi. Anime inquiete con le nostre valige sempre troppo piene. O, forse, troppo piccole. “Il profugo che si ostina a portare con sé troppa roba, rischia di non farcela- di cadere, impedito e affaticato, lungo la via”1. E nelle nostre valige, comunque, la nostra angoscia, i nostri dubbi, la nostra speranza e la nostra nostalgia “uno strumento per misurare distanze- lontananze, appunto. Per collocarsi nello spazio” 1. In uno spazio che non abbia, però, limiti né confini, che sia Infinito e che possa, così, contenere, in un qualche modo, tutto ciò che umanamente siamo.
¹Profughi, in Emilio Tadini. “I tritici” Studio Marconi Milano 1990 – in Emilio Tadini 1985-1997 I profughi, i filosofi, la città, la notte Skira-Fondazione Marconi 2012
²Allegoria, in Emilio Tadini. “I tritici” Studio Marconi Milano 1990 – in Emilio Tadini 1985-1997 I profughi, i filosofi, la città, la notte Skira-Fondazione Marconi 2012
Maria Luisa Paolillo (guarda tutto il progetto)
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