Mettere un piede davanti all’altro è sicuramente una delle pratiche più comuni, diciamo più scontate, distintiva, connaturata all’essere umano. A qualsiasi latitudine. Come il bere e il mangiare. Senza entrare nel merito di ciò che collega l’atto stesso del camminare all’evoluzione della nostra specie e tralasciando le varie implicazioni – culturali, filosofiche, antropologiche, salutistiche, sportive, bio-meccaniche, modaiole, cinematografiche – osservare la gente mentre cammina, in questo caso in un contesto urbanizzato, osservarne la postura, il movimento, gli elementi accessori che lo caratterizzano e in qualche modo lo rendono unico e in alcuni casi irripetibile, da un punto di vista anche soltanto estetico è innanzi tutto un puro, godibile spettacolo. E qQuale occasione migliore per potervi assistere se non quella di una full immersion in un luogo che rappresenti la summa, la massima concentrazione di gente che si sposta e che lo attraversa, ognuno seguendo una propria direttrice, ognuno con un proprio ritmo, in compagnia o in solitudine. Piazza del Duomo a Milano, tra i tanti possibili, è sicuramente uno di questi luoghi. Sembra quasi che la topografia stessa della città, con la sua geometria concentrica, porti, faccia convergere, catalizzi una variegata moltitudine di bipedi umani proveniente dai quattro angoli del mondo verso quel punto, vero e proprio crocevia … Una volta deciso di scegliere come soggetto fotografico il contenuto umano di questa stupefacente Piazza (con incursioni in Galleria e Corso Vittorio Emanuele), l’obiettivo ora si è spostato, direi quasi con movimento autonomo, verso il basso, nel punto in cui con ritmica alternanza l’Uomo poggia sulla Terra e trova la spinta per il proprio incedere, per il proprio andare avanti, quindi per il proprio scoprire il mondo e sentirsi vivo. Un occhio, quello dell’obiettivo, attratto e affascinato da un’ incredibile, multiforme e multicolore messa in scena anche qui di un mondo spesso inosservato, prevalentemente fatto come si diceva di dettagli: sinuose curvature di dorsi e archi plantari, caviglie, lacci colorati, calzature dalle mille fogge, tacchi slanciati, panciuti o goffi, unghie smaltate, tatuaggi, incroci, accoppiamenti, sovrapposizioni e simmetrie di piedi e gambe quasi stessero danzando, flessioni di ginocchia, centimetri di pelle lasciata nuda, accessori funzionali o occasionali che pendono dalle braccia o dalle mani e si intromettono nel campo, indumenti che avvolgono, fluttuano, disegnano nuove forme, si animano di vita propria. E va detto, a corollario e se ce ne fosse bisogno, che sotto questi aspetti il genere maschile, pur presente, ha meno carte da giocare. E’ il trionfo del movimento, calato nella dimensione urbana, antropizzata. Quasi che la parte sottostante si assumesse il compito di portare a spasso l’altra che sta sopra, dalla vita in giù sembrerebbe esistere una nuova dimensione, autosufficiente, come fosse indipendente dall’altra metà complementare. E di una capacità espressiva stupefacente. A volte candida, a volte ironica, a volte buffa oppure sensuale e conturbante, a volte esagerata. Impiegatizia e da tempo libero. Elegante e casual. Classica e barocca. Che con la camera – tenuto conto della variabile multipla e incostante del deambulare – ho cercato di interpretare.
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