Nota di Francesco Tadini: ricevo da Edoardo Pilutti il seguente articolo e volentieri pubblico sul sito di PhotoMilano,
Arte del primo Novecento e arte contemporanea a confronto a Milano.
Fondazione Prada, Federico Rui Arte Contemporanea, Galleria Rubin, Studio d’Arte Cannaviello.
Inaugurata il 14 giugno presso la Fondazione Prada a Milano la quarta e ultima personale del progetto curatoriale Slight Agitation (Una Leggera Agitazione) che vede ora protagonista l’artista brasiliana Laura Lima (Governador Valadares, 1971), attualmente residente a Rio de Janeiro.
Il titolo delle tre installazioni presentate nella Cisterna ( uno dei vari edifici che sorgono sui 18.900 mq della Fondazione, edificio di una certa altezza e costituito da tre ampi locali intercomunicanti ) è Cavallo mangia Re, con un’allusione allo scacco matto, situazione in cui effettivamente rischia di trovarsi lo spettatore sbaragliato di fronte alle opere installate che sono estremamente disorientanti e lontane da facili interpretazioni.
Le opere in mostra sono Bird (2016, creato assieme ad un altro artista brasiliano: Zé Carlos Garcia), un enorme corvo nero misteriosamente precipitato ed accasciato al suolo dove sono sparse ovunque piume nere; Pendulum (2018), un lungo braccio pericolosamente oscillante come il pendolo di Faucault, mosso in alto da un meccanismo elettronico, e con all’estremità inferiore un dipinto astratto; e Telescope (2018) un insieme di alti ponteggi percorribili sulla cui estremità è posto un telescopio puntato verso il cielo, utilizzabile però solo col buio della notte quando la mostra è chiusa, nonostante la presenza di alcuni scienziati astronomi ( ma basterà attendere settembre, quando il sole tramonterà prima, poiché nei giorni di venerdì, sabato e domenica la fondazione è aperta fino alle ore 21).
Attraverso la combinazione e l’allineamento di queste tre installazioni eccentriche ed eterogenee, viene così proposta una riflessione sull’assurdità del reale, sulla prepotenza dell’immaginario e sulla mediazione del simbolico incarnato dall’opera d’arte.
L’illogicità poetica delle creazioni di Lima ( artista che ha già esposto in numerose capitali politiche e culturali fra cui Rio de Janeiro, Buenos Aires, Città del Messico, Zurigo, Maastricht, Stoccolma, Copenhagen e Varsavia ) sospinge a pensare al linguaggio surreale della patafisica (ideazione dello scrittore surrealista francese Alfred Jarry), intesa come scienza immaginaria di fenomeni bizzarri e insensati, e come parodia della conoscenza accademica.
La mostra, in atto fino al 22 ottobre, potrebbe essere meglio percepita, se non proprio capita, considerando l’epoca storica in cui è nata l’artista: proprio durante il ventennio della sanguinaria e assurda dittatura militare in Brasile (1964 – 1985).
La Fondazione Prada, il cui ambizioso progetto culturale è quello di arricchire la vita di tutti ed aiutarci a capire i cambiamenti che avvengono in noi e nel mondo, in questo periodo propone altre quattro esposizioni.
Anche se si è conclusa lunedì 25 giugno ci si deve soffermare almeno sulla straordinaria ed eccellente POST ZANG TUMB TUUM. ART LIFE POLITICS. ITALIA 1918-1943, curata da Germano Celant e con un progetto di allestimento ideato da uno studio newyorkese: vastissima esposizione di oltre settecento fra opere d’arte, documenti, fotografie, manifesti, progetti architettonici e mobili, che tiene in grandissima considerazione il contesto del periodo storico ( proprio il nostro ventennio fascista ) in cui furono prodotti.
Il titolo si riferisce al poema visivo Zang Tumb Tumb ( libro pubblicato da Filippo Tommaso Marinetti nel 1914, sull’assedio di Adrianopoli nella prima guerra dei Balcani), per esplorare minuziosamente ciò che accadde nella storia dell’arte e dell’architettura in Italia dal 1918 al 1945, data dell’ultimo dei tre dipinti di Emilio Vedova che concludono l’interminabile esposizione.
L’intento del curatore G. Celant è quello di mettere a confronto le opere degli artisti ( fra cui i dipinti di F. Depero, F. T. Marinetti, G. Dottori, G. Balla, F. Casorati, G. Morandi, Scipione, G. de Chirico,
A. Tosi, G. Severini, F. De Pisis; e le sculture di A. Wildt, A.Martini, M. Marini, L. Andreotti), e le correnti artistiche (Futurismo, aeoropittura, Valori Plastici, Novecento, Scuola romana, metafisica, realismo magico, astrattismo, gli esordi dell’informale) con l’architettura, le arti applicate (design e manifesti), con la letteratura e soprattutto con la politica, attraverso un corredo di innumerevoli lettere, fotografie, libri d’epoca, carteggi, giornali, riviste.
Avendo tempo per leggere qualcuna delle lettere esposte, si scoprirà come Alberto Moravia nel 1929 pagò personalmente la pubblicazione del suo primo romanzo Gli indifferenti, presso la casa editrice milanese Alpes; si scoprirà anche qualche esemplare dell’epistolario che tenne con i suoi cugini Nello e Carlo Rosselli, rifugiati in Francia ed assassinati nel 1937 da sicari inviati dal regime italiano.
Si scoprirà ancora l’ostracismo contro Giorgio de Chirico, estromesso dall’Esposizione Biennale di Venezia, reo di aver espresso convinzioni antifasciste in un’intervista ad una rivista francese, e si scopriranno i tentativi di tanti altri artisti di astenersi da una presa di posizione politica, cercando di difendere la propria autonomia stilistica.
Per rendere più viva la disamina dei quadri e delle sculture, essi sono spesso collocati in una parziale ricostruzione fotografica a grandezza naturale delle sale che le ospitarono nelle sedi istituzionali ( Biennale di Venezia, Quadriennale di Roma, Triennale di Milano, ecc.) o nelle gallerie private dell’epoca, sia italiane che straniere, attraverso lo snodarsi di venticinque saloni.
Dall’esplorazione delle interconnessioni fra arte e regime politico, risulta la capacità del partito fascista di strumentalizzare la bellezza dell’arte e l’imponenza dell’architettura per ottenere e consolidare il consenso sociale, attraverso un’abile propaganda ed un’avveduta comunicazione di massa.
Ciò che salta agli occhi è comunque il fulgore di tanta bellezza di opere d’arte, e proprio il loro minuzioso ricollocamento topografico e storico fa sorgere un’interrogazione su come sia stata possibile la produzione di qualcosa di sublime all’interno di un sistema politico totalitario, repressivo ed assassino ( numerosi gli oppositori a cui fu impedito il lavoro, che furono esiliati, incarcerati, torturati o assassinati come ad esempio il deputato socialista G. Matteotti) che trascinò l’Italia nella Seconda Guerra Mondiale.
Secondo le teorie sociologiche della Scuola di Francoforte l’arte è sempre funzionale al sistema politico-economico-finanziario. Quindi, riuscendo ad isolarsi nei loro studi, magari cercando di sfuggire ad una chiara identificazione ideologica, se non in certi casi appoggiando il regime (non senza alternanze, come ad esempio accadde con Marinetti, fondatore del Futurismo costituito nel 1919 anche come partito politico ideologicamente coincidente coi Fasci di Combattimento, che si dimise dai Fasci nel 1920), le opere degli artisti del periodo 1918 -1943 sono state inglobate dal potere politico totalitario e strumentalizzate per aumentarne il consenso.
Ma sorge un altro interrogativo: oggi, qual è il rapporto fra arte e sistema politico? E il sistema politico, oggi ancor più di ieri, non è forse sussunto dall’economia, dalla finanza, dall’ideologia del mercato? E non è forse vero che l’artista non possa sfuggire al confronto con l’ideologia del mercato dell’arte?
La predominanza di opere d’arte costituite da installazioni simili talvolta a reperti da discarica, talaltra a laboratori pseudoscientifici o ai loro prodotti, da filmati (video) per lo più noiosi (rare le eccezioni), da fotografie mal riuscite ( magari fatte apposta o selezionate intenzionalmente fra scarti vari ), non è forse funzionale al perdurare del sistema di potere finanziario – politico? Poiché proprio quando nell’arte trova luogo la massima libertà ( a partire dalla libertà che si prese Duchamp di proclamare opera d’arte un orinatoio, per proseguire con le scatolette di P. Manzoni, fino ad oggi), nella società aumentano le sperequazioni, le costrizioni, le ingiustizie, le disuguaglianze, le illibertà, le barriere.
Non è che un’arte confusa, ermetica, enigmatica, sia funzionale alla confusione, alla stasi, alla prepotenza che spesso si vede nella politica?
Certo, gli artisti attualmente incarnano i dettami dell’ottocentesca filosofia marxiana, laddove negli Scritti Giovanili il pensatore tedesco esortava l’uomo a lavorare al mattino nei campi, in fabbrica al pomeriggio, e ad occuparsi di filosofia e di politica a sera, per contrastare la divisione del lavoro generatrice di tanta ingiustizia sociale. Oggi gli artisti tendono ad occuparsi di tutto lo scibile umano, anche se in modo fasullo, mimetico, artificiale. Non sarebbe meglio poter contare anche su un’arte più chiara, meno cervelloticamente infondata, magari basata anche sulle vecchie tecniche pittoriche?
Ne abbiamo visto qualche esempio quest’anno, anche qui a Milano. Alla Galleria Federico Rui Arte Contemporanea (federicorui.com) è ancora in corso, fino a fine giugno, la personale Monade del pittore Federico Lombardo (Castellamare di Stabia 1970, esposizioni alla Quadriennale di Roma, alla Biennale di Venezia, al PAC di Milano, ecc.), il quale appunto s’interroga sul valore odierno della pittura come espressione della fisicità dell’uomo. Nel titolo vi è un richiamo alla storia della filosofia, da Pitagora a Leibniz, per attestare il diritto dell’artista a condurre la propria ricerca in modo solitario e riflessivo sull’esistere umano.
Anche alla Galleria Rubin (galleriarubin.com) tra marzo e aprile, una degli artisti della galleria che pure è concentrata sulla serietà del linguaggio pittorico, è stata presentata la personale Sentieri d’acqua di Letizia Fornasieri, attenta allo studio concettuale degli accostamenti cromatici su soggetti pretestuosamente paesaggistici, ma sostanzialmente per affermare le proprie certezze sull’essere nel mondo.
Come terzo esempio abbiamo lo Studio d’Arte Cannaviello (cannaviello.net), da decenni attento alla pittura di ricerca e d’avanguardia, che fra gli scorsi dicembre e gennaio aveva presentato i dipinti del giovane cinese Hao Wang (Shandong, 1989) che rappresentano un’umanità indefinita, assorta in riflessioni all’interno di grandi parchi cittadini: anche qui l’intento dell’artista è quello di interrogarsi sulle diversità culturali, sull’identità personale, sull’incomunicabilità.
Quindi si possono ancora svolgere delle ricerche artistiche interessanti che uniscano agli intenti filosofici una ritrovata gradevolezza.
Edoardo Pilutti ( edoardo.pilutti@gmail.com)
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